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Montecorvino nei Secoli
La Montecorvino che vide l’alba dell’anno 1400 era piuttosto malconcia, pochi anni prima, nel 1392, durante la guerra tra Ludovico D’Angiò e Ladislao Durazzo, aveva offerto rifugio nelle mura del Castello Nebulano ai Sanseverino di parte Angioina, potentissimi signori di Salerno. Di questo atto Montecorvino fu punita e le soldatesche di Ladislao, capitanate da Alberico da Barbiano, espugnarono di sorpresa il Castello e misero il Paese a ferro e fuoco. Ridotta in rovina, specialmente nei suoi nuclei principali di Rovella e Pugliano, offriva uno spettacolo desolante ed eccone l’aspetto di allora ricostruito con lievissimo margine di errore:
• La zona costiera, dal Capoluogo alle porte di Salerno, tranne poche case sparse e qualche appezzamento di terreno, era in preda dalla malaria, acquitrini e gigantesche paludi.
• La zona pianeggiante, intermedia, tra il mare e la collina, intersecata da importanti strade di collegamento, offriva uno sguardo di insieme meno desolante della costa, vaste zone coltivate, in possesso di poche e facoltose Famiglie, si alternavano a folte macchie di vegetazione ed a corsi d’acqua che attraversavano il territorio.
• La zona collinare situata tra i comuni di Acerno, Olevano, Giffoni e Salerno, era quella che aveva sofferto maggiormente seppure furono rispettate le Chiese ed il palazzo Vescovile, altrettanto non avvenne per il resto che era ridotto ad un desolante ammasso di rovine.
In questo quadro, vi era da aggiungere che il suddetto territorio aveva molti padroni: la parte occidentale del Paese, dalla frazione S. Martino sino alla frazione Martorano, Occiano e una ampia fetta di Pugliano, era di proprietà della Mensa Arcivescovile di Salerno, con piccole eccezioni come riferimento in seguito: la parte alta comprendente Marangi, Chiarelli, Votraci e i casali di Cornea e Molenadi con il casale della Strada ( Via Iorio – Via Diaz ) erano proprietà del Reggio Demanio e anche qui vi erano numerose eccezioni di proprietà private.
Il territorio della Mensa, confermato con atto della Regina di Napoli, Giovanna II, del 26 settembre 1417, si interrompeva, quasi bruscamente, tra il casale di S. Michele ( S. Filippo ) ed il casale di Castiuli ( Piazza Budetta ), ed era qui infatti che si allungavano i possessi di due grosse famiglie: i D’Arminio della frazione Nuvola ed i Damolidede del casale Ferrari.
L’avvento degli Aragonesi nel 1442, ridusse notevolmente i poteri dei baroni che, tuttavia, riuscirono ad ingraziarsi il re Alfonso D’Aragona in fatto d’armi.
Alfonso II, per riconoscenza di questo fatto, il 24 giugno 1494, insigni 23 famiglie montecorvinesi del titolo nobiliare, e tra queste la famiglia D’Arminio con Carlo del casale di Nuvola, e la famiglia Damolidede, con Giulio del casale Ferrari.
© Nunzio Di Rienzo
Le Origini
Le Origini
Questi luoghi, orograficamente e climaticamente ideali per l’insediamento umano, sono stati abitati fin dalla preistoria. E’ infatti ormai accertato -scavi archeologici anche recenti lo hanno confermato- che già nel Neolitico (VIII millennio a.C.) queste prime propaggini dei Monti Picentini erano abitate dall’uomo. Anzi, il ritrovamento più significativo in questo senso, quellodi “Ripa del Corvo” (sperone roccioso posto a monte della provinciale per Pugliano) fa pensare ad indiscussi commerci con i primi navigatori delle civiltà micenee: una sorta di Magna Grecia preistorica, rappresentata da resti di anfore e manufatti dalle caratteristiche inequivocabili, ha anticipato quella storica universalmente conosciuta.(1)
Quest’ultima, nel suo periodo di maggior splendore è entrata in contatto, proprio nei nostri territori, -che evidentemente rappresentano un crocevia ineludibile- con l’altra grande civiltà preromana: quella etrusca. Erede della civiltà villanoviana, questo misterioso popolo ha civilizzato gli italici che abitavano queste terre, e la felice commistione con le avanguardie della cultura greca rappresenta tuttora un sostrato etnografico ineguagliabile.
L’orgoglio degli antichi Picentini d’altronde è la testimonianza delle loro “nobili” origini. Essi non furono mai domi di fronte alla organizzata potenza delle falangi romane, tant’è che si schierarono con Annibale quando sembrò che il figlio di Amilcare Barca avesse avuto ragione degli eserciti romani: questa scelta fu pagata a caro prezzo dai Picentini. Dopo la vittoria di Scipione l’Africano nella Seconda Guerra Punica (201 a.C.) essi furono trucidati in gran numero e Picentia, la capitale, fu rasa al suolo. Poco più di un secolo dopo, durante la “guerra sociale” si allearono coi Sanniti contro Roma, ma nell’89 a.C. Caio Mario Silla, accampato nella località ancora oggi chiamata Cupa Siglia, presso Fuorni, inflisse una dura sconfitta agli alleati radendo al suolo definitivamente Picentia e altre città ribelli. Le popolazioni cercarono scampo a ridosso di questi monti, costruendo piccoli villaggi tra queste valli: è questa la genesi dei paesi come Montecorvino Rovella.
Descrizione del territorio.
Autentica chiave di accesso al Parco dei Monti Picentini, la millenaria Montecorvino è il primo nucleo storico in cui ci si imbatte risalendo la pianura alluvionale che parte dal golfo di Salerno. Il suo territorio, prevalentemente montano, dopo la costituzione di Bellizzi in Comune autonomo (1990), ha una estensione di Kmq. 42,15, con una variazione altimetrica da mt.103 a mt. 1165 s.l.m. (Monte Telegrafo). Il Capoluogo Rovella posto a mt.300 s.l.m. è adagiato a semicerchio ai piedi del monte Nebulano (sul versante Est), ed è circondato da dodici antichi Casali: Occiano, Gauro, Martorano, Chiarelli, Marangi, Votraci, S.Lazzaro, Cornea, S.Eustachio, Ferrari, Nuvola e S.Martino; oltre alla frazione Macchia situata più a valle.
Paradossalmente, per un’alchimia della Storia, Montecorvino Rovella ha riscoperto, dopo l’ultima amputazione di Bellizzi, la sua antica vocazione culturale, artigianale, manifatturiera e sta innestando nell’agricoltura la nuova anima agrituristica, lucrando su una policromia paesaggistica che costituisce la sua ricchezza. Le montagne fanno da corona all’abitato: quelle vicine sovrapponendosi a quelle lontane sul degradare dell’orizzonte, linee appena visibili…tracciate con mano incerta da un bambino su un foglio ingiallito: le groppe nude del monte Pila; i piucchi brulli dell’Accellica; le dorsali selvose del monte Faragna; le cime a pan di zucchero, spesso imbiancate del Polveracchio. Esse concedono purtuttavia a sud la visione del golfo di Salerno: color zaffiro all’alba, color agata a mezzogiorno, ametista o berillo al tramonto!
Vi sono luoghi che abitano la memoria di ognuno di noi e costituiscono gli archetipi a cui, anche inconsapevolmente, si rifà la nostra immaginazione, la nostra vera essenza ontologica. Luoghi ove trova una dimora ideale, l’anima atemporale delle cose, dei presagi, delle leggende. Uno di questi è il monte Nebulano. Simbolo stesso di Montecorvino, ha sempre rappresentato un riferimento mitico
nell’immaginario collettivo. Forse perché la sommità del monte ospita i ruderi di un antico maniero di epoca longobarda, risalente al VI secolo, quando Montecorvino era l’estremo confine occidentale del Granducato longobardo di Benevento: Il Castello Nebulano.
Conosciuto dagli antichi col nome di Castrum nubilarum, fu abitato fino al XVI secolo, quando il Medioevo era alla fine. Subì vari assalti e distruzioni, come quella del 1122 da parte di Guglielmo il Normanno, ultimo duca di Salerno che ridusse alla ragione il riottoso conte Falco. Dopo soli quindici anni, Ruggiero II, lo zio di Guglielmo assaltò di nuovo il Castello compiendo nuove distruzioni.
L’ultima storica devastazione del maniero fu quella del 1392, quando nella contesa fra Ludovico D’Angiò e Ladislao di Durazzo, il conte Alberico da Barbiano lo conquistò dalla parte di Giffoni, nonostante la stoica difesa degli assediati.
Con la fine del Medioevo, abbandonato all’incuria del tempo, il castello si andò deteriorando e i ruderi attuali non sono che il simulacro dell’edificio primitivo. Tuttavia il ricordo del Castello Nebulano fu rinverdito nel 1881 dalla pubblicazione a puntate sul giornale “Roma” del romanzo “La sonnambula di Montecorvino”, uscito dalla penna di Francesco Mastriani. Lo scrittore napoletano, dopo un soggiorno nella nostra cittadina, nell’autunno del 1877, presso l’avv.Vincenzo Maiorini che aveva conosciuto a Napoli, narra la “storia” (posponendola di almeno tre secoli) dell’ultimo abitante del Castello: il conte Baldassarre di S.Pietro. Il romanzo contribuì a consolidare la concrezione mitico-leggendaria, già esistente, delle antiche rovine. Ma il balcone naturale del monte, cinto da collane di ulivi, è anche il luogo ideale per cogliere l’essenza peculiare del territorio. A partire dagli stessi ulivi secolari che distendono una serena uniformità cromatica sul paesaggio e danno un olio extravergine rinomato nel circondario (che ha recentemente ottenuto il riconoscimento di qualità “DOP Colline Salernitane”). Dallo stesso punto di vista privilegiato è possibile coglier la particolare disposizione degli antichi casali posti a “corona” intorno al capoluogo Rovella. Quasi tutti aggregati di pendio, i casali trasferiscono nelle dimore il concetto rurale della sistemazione del terreno a terrazzamento. E’ questo l’unico modo, in queste zone, per sfruttare appieno la peculiarità del territorio; sia per quanto concerne lo smaltimento delle acque piovane, che per la vera e propria organizzazione abitativa (piano seminterrato addossato al terrapieno, adibito a deposito; piano rialzato, con facile accesso dal pendio, adibito ad abitazione).
La Chiesa di S.Ambrogio.
I Longobardi, (i “barbuti” come li chiamarono a Salerno), attraversarono i valichi delle Alpi orientali nel 568, ma già da tempo erano conosciuti per le loro virtù guerresche, la loro cultura infatti era nella forza delle armi. Mentre il grosso delle truppe, con a capo il loro re Alboino, si fermava in Toscana, un altro contingente, con a capo Zottone, proseguiva verso il Sud stabilendosi a Benevento. Nascevano in questo modo due Longobardie: una a Nord con capitale Pavia ed una al Sud (teoricamnente sottoposta alla prima) con capitale Benevento. Paradossalmente, caduto il regno del Nord nel 774 per mano di Carlo Magno, restano al Sud le tracce più significative della acculturazione dei Longobardi alla tradizione romana i italica. Nell’area beneventana infatti, vi sono le vestigia e i ricordi di un popolo che, convertito al cattolicesimo e affascinato dalla civiltà romana, è entrato a pieno titolo nella storia d’Italia.
Testimonianza imperitura di questo fiero popolo nella nostra Montecorvino, ed autentico misconosciuto “gioiello”, è un’antica chiesetta posta a poche centinaia di metri dal casale Occiano, in prossimità del torrente Renna. La nascita del primo impianto è da porre sicuramente nel X secolo, tenuto conto che questa parte della valle del Picentino già nel VI secolo era sede di cospicui scambi commerciali.
La primitiva committenza si può, con sufficiente sicurezza, attribuire a privati (sull’esempio della chiesa di S.Camillo a Salerno), anche se nel corso dei secoli vi è stato senz’altro un utilizzo pubblico (vedi anche le numerose tracce di inumazione). Nel XIV secolo l’importanza della Chiesa rurale di Sant’Ambrogio comincia a declinare in favore di quella di Santa Maria Assunta dello stesso casale di Occiano, a cui passa la giurisdizione ecclesiastica dell’edificio e dei suoi parrocchiani. Da questo momento in poi la chiesetta viene emarginata dalla vita sociale e religiosa della comunità che fa riferimento all’agglomerato di Occiano, tenuto conto anche della presenza della chiesa della Madonna delle Grazie, posta sulle pendici occidentali del monte Nebulano.
Il silenzio della dimenticanza cala a poco a poco sulla chiesetta longobarda che subisce, secolo dopo secolo, l’insulto delle intemperie e l’assalto della natura: edere e rovi l’avviluppano, nascondendola alla vista dei più. Solo in qualche contadino del luogo resta la memoria di “Sant’Ambruosio”.
Ma il provvidenziale distacco di parte dell’intonaco qualche anno fa, nel catino dell’abside, fece cadere sia una pittura raffigurante la Parusia di Cristo che la coltre dei secoli. La scoperta è da attribuire alla paziente opera di ricerca archeologica di Geremia Paraggio, presidente del locale Archeoclub d’Italia. Sullo strato sottostante dell’intonaco, infatti, rivide la luce un affresco della Vergine Maria col Bambino, contornata dai Santi Ambrogio, Simpliciano, Gervasio e Protasio: quattro santi di Milano a Montecorvino Rovella! Il dipinto costituisce, con molta probabilità, l’unica rappresentazione nel Mezzogiorno, dei quattro santi di Milano venerati dai Longobardi. Dopo la caduta del regno longobardo di Pavia, vi è stato evidentemente, nel corso degli anni, uno stillicidio migratorio verso il superstite Regno longobardo di Benevento, con l’inevitabile nostalgia del culto dei padri.
Da qualche anno la chiesetta è stata completamente restaurata dalla Soprintendenza di Salerno. Ciò ha consentito di evidenziare e valorizzare le splendide peculiarità della costruzione:
-l’abside estradossata della chiesa è rivolta ad est come tutte le chiese bizantine;
-il frontone, completamente ricostruito, a doppio arco, è stile architettonico ricorrente nelle chiese longobarde beneventane;
-il nartece, vestibolo delle chiede paleocristiane riservato ai catecumeni e ai penitenti è, nelle nostre zone, struttura rarissima.
I particolari evidenziati ci attestano che la costruzione rientra nell’ambito culturale bizantino, perché la specificità dell’edificio è nella continua, felice commistione, di elementi appartenenti alla cultura orientale con quelli più propriamente “beneventani”, nonché “milanesi” per quanto concerne i quattro santi che affiancano la Vergine. Ciò conferma, se ce ne fosse bisogno, come nell’Alto Medioevo, le esperienze e le idee circolassero molto più di quanto noi moderni si possa pensare, dando origine a strutture e affreschi, in certi contesti, pressoché unici.
L’attualità.
Nell’attuale, pulsante fisionomia del territorio di Montecorvino Rovella, v’è il sentore di un antico lievito genetico che cerca di riaffermare l’antica identità: nascono in questo modo aziende agrituristiche che propongono antichi piatti locali, custoditi solo nella memoria delle nostre nonne; luoghi ideali per il riposo del cuore e della mente torturati dalla modernità, nel frinire al sole delle cicale e col trillio dell’usignolo al tramonto.
L’artigianato ha avuto negli ultimi anni, per merito di giovani imprenditori, un notevole impulso. Basti citare per tutti la lavorazione della terracotta che per qualcuno di essi ha avuto positivi riscontri a livello europeo (manufatti per il restauro di Chiese, monumenti ecc.).
Ma è forse la particolare collocazione collinare del territorio (a cui si accennava prima), che conserva da secoli in queste contrade l’antica tradizione di un’aria salubre, impreziosita dalle fragranze spontanee dei boschi, a costituire la più appetita e gratuita bellezza di Montecorvino Rovella.
Il percorso serale del Viale dei Cappuccini rappresenta da questo punto di vista un’esperienza emblematica ed appagante che, ove fosse completata dalla gustosa, variegata leccornia dei gelati locali, raggiungerebbe vertici di piacere inusitati.
© Luigi Volpe