Dal Neolitico ai Normanni
Sulla sommità del monte Castello, in località Ripa dei Corvi, (1) in alcuni ripari rocciosi, sono state ritrovate tracce della presenza dell’uomo neolitico, (2) che in base al materiale ritrovato è databile all’età del bronzo. (3)
Nella parte nord orientale del piano del castello, alla base della collina della rocca, sono documentate varie fasi di insediamento. (4) La prima più antica, del VII-VI sec. a.C., era costituita da una capanna il legno e da una fossa di scavo con resti di ceramica, (5) cosa che fa presupporre un interscambio fra la popolazione indigena e il centro etrusco di Pontecagnano.
Nella seconda metà del IV sec. a.C., a differenza dei periodi precedenti dalla sporadica presenza umana, è documentato un piccolo villaggio a vocazione agricola. Sono stati ritrovati diversi tipi di materiale quali tegole, pietre, ceramica a vernice, pesi da telaio ed un anfora vinaria.(6) L’abitato aveva un importanza strategica per la sua posizione di facile difesa e di controllo del territorio circostante per cui non si può escludere che fosse un avamposto degli Etruschi di Amina.
La terza fase, documentata da scavi effettuati nel 1986, è rappresentata da un insediamento medievale, (7) caratterizzato da strutture abitative dove risiedevano i cortisani addetti alla coltura del piano. Il piccolo villaggio, quindi, rappresentava la ripresa abitativa tesa allo sfruttamento e alla coltivazione dei terreni e degli incolti siti sulla sommità del Locus Montecorvino. Sul periodo di costruzione e sulla consistenza abitativa della curtis non abbiamo indizi ma possiamo ipotizzare che un dominus appartenente all’aristocrazia salernitana, proprietario di vasti fondi, abbia favorito l’arrivo di contadini concedendo loro terreni con contratto a pastinato.
Oggi il sito è privo di acqua ma è probabile che in passato vi fossero sorgenti di superficie o sotterranee, captate da pozzi o da piccole opere idrauliche. Nella parte iniziale del pianoro, infatti, ancora oggi insiste un pozzo sorgentifero, che serviva ai coloni che abitavano su un rudere posto a circa m. 50. Il luogo dove sono i resti del caseggiato era chiamato anticamente Vinea Dominica.(8) Il termine indica chiaramente che questa parte del fondo agricolo era utilizzato alla coltivazione della vite del dominus.
Contiguo al rudere, posto in elevato, vi sono, ancora oggi, i resti di un pavimento di una precedente abitazione. La sua forma rotondeggiante ci fa ipotizzare che si trattasse di una torre adibita al duplice uso di vedetta e deposito agricolo. Non è improbabile, quindi, che alla fine del X secolo questa struttura rappresentasse il centro di raccolta e di trasformazione dei prodotti agricoli, forse un palmentum, e la residenza del conductor della curtis. Il manufatto era posto su una strada di collegamento fra la Madonna dei Lari e la torre longobarda, eretta sul sito dove oggi vi sono i resti del castello. Il percorso, posto sul crinale che si sovrappone al piano, incontrava i sentieri provenienti da Occiano e, superata la torre, si congiungeva con la strada proveniente da Rovella.
Subito dopo la torre il tratto viario costeggiava per circa 400 metri un sistema di terrazzamenti murati per poi arrivare all’asse che collegava Rovella con Occiano. Nella parte prospiciente allo snodo viario, in direzione di Occiano, vi erano il toponimo Pozzulum (9) e la Fontana del Castello (10) a dimostrazione che nel Medioevo vi era la possibilità di approvvigionarsi di acqua. La presenza di una fontana o di un pozzo consentì sul versante sud-ovest di costruire una serie di mura su terrazzamenti in cui erano edificati piccoli rifugi in legno o in pietra dove si riversavano le popolazioni circostanti in caso di pericolo. Si trattava, con molta probabilità, di un sistema semi fortificato costruito in funzione della torre e al servizio, nella prima fase, dei serventi addetti alla custodia e poi degli abitanti che fuggivano dai saraceni. Il sito era costituito da ripari in legno o in pietra incavati nelle rocce e da una chiesa frequentata dai serventi e dagli abitati del castello. A mio parere il nucleo abitato rappresentava uno stanziamento momentaneo, atto alla prima difesa. Passato il pericolo, poi, gli uomini dei vari locus ritornavano nei primitivi insediamenti per riprendere le loro attività produttive. (11)
La parte signorile del castro era costituita da una torre, la quale aveva la funzione di vedetta, dimora dei serventi e comunicazione con i castelli vicini e non quella di residenza del dominus. Le fonti scritte, infatti, dimostrano che quasi sempre i membri della aristocrazia longobarda preferivano risiedere nella capitale del principato e solo raramente si spostavano nei loro fortilizi. (12) Il vicino castello di Olevano era costituito, nella prima fase, da un torrione centrale a cui si aggiunsero in seguito vari edifici e aveva quasi esclusivamente la funzione di controllo della sottostante vallata del Tusciano. (13) Non avendo riscontri archeologici che ci aiutano a identificare le fasi di costruzione e il successivo sviluppo architettonico, possiamo solo ipotizzare che durante la seconda metà del IX secolo, (14) così come avvenne per i castelli limitrofi, (15) sia stata edificata una torre (16) di avvistamento in muratura nell’attuale sito. La sua posizione centrale rispetto alle due valli sottostanti le consentiva un ottimo controllo del territorio e una immediata comunicazione con gli altri castelli su una eventuale irruzione di truppe nemiche o di orde saraceniche. Nel X secolo, con il diminuire delle scorrerie degli agareni, il castro continuò ad avere le funzioni originarie, facendo parte di quello che ormai era divenuto il principale sistema difensivo del Principato di Salerno.
La rete dei castelli e delle torri costituita per difendere il Principato funzionò egregiamente fino alla metà del XI secolo, quando la venuta dei nuovi mercenari al servizio dei principi di Salerno, evidenziò tutta la sue fragilità e consistenza. Difatti nel 1065, Guglielmo di Principato e Guimondo de Mulisi occuparono il castello di Olevano, costringendo il nostro castello ad arrendersi o ad accordarsi. Non credo che sia stato assediato perché ai due normanni interessavano soprattutto i beni della Chiesa di Salerno. Nel settembre 1067, i due signori restituirono tutti i beni usurpati all’Arcivescovo di Salerno, (17) liberando così anche il nostro castello, il quale ritornò di nuovo in dominio di Gisulfo II.
Nel 1076, Roberto il Guiscardo partì da Melfi per assediare Salerno e conquistare definitivamente il Principato. Lungo il tragitto distrusse il castello della Rotonda di Acerno (18) e conquistò Montecorvino e il suo fortilizio. I Normanni consideravano Montecorvino un territorio ricco di beni e di abitanti e strategicamente importante per la difesa della Capitale per cui decisero di costituire un feudo da assegnare a un loro milites. (19) Il centro amministrativo e politico-militare del nuovo distretto feudale era il castrum in quanto residenza del nuovo signore.(20) La sua struttura venne radicalmente cambiata, con l’ampliamento della parte signorile e una nuova ridefinizione della parte sottostante, che divenne il luogo dove insistevano i depositi per animali e vettovaglie, le abitazioni momentanee per i serventi e i vassalli del feudo e, soprattutto, il fulcro religioso dell’area castrale.
Per i nuovi dominatori i castelli avevano una importanza notevole perché simbolo del potere e del prestigio raggiunto dai feudatari, oltre a essere considerati “come una sorte di caserma militare, sul tipo dei castro bizantini tardo antichi ove si stoccava il materiale militare e poteva pure asserragliarsi la gente in caso di guerra”. (21) La nuova fortezza non era avulsa dal territorio circostante, soprattutto la parte che verrà denominata Castro Montecorvino,(22) dove generalmente abitavano le famiglie più strettamente legate al nuovo dominus e perciò più fedeli e rispettose alle direttive del loro signore. (23) E bene sottolineare che se per questi gruppi parentali e di fedeli vassalli rappresentava il potere e la sicurezza, altrettanto non lo era per i vari milites e allodieri, normanni o longobardi, residenti nelle varie rocche del territorio. In questo nuovo assetto di potere, emerge chiaramente una dialettica interna fra la schiera dei fedeli al duca Ruggiero e quelle invece ligie al feudatario normanno.
Nei primi decenni del XII secolo, risulta signore del castello di Montecorvino Fulco, il quale nel 1122 si era schierato con Giordano, conte di Ariano, capo della fazione ribelle al duca Guglielmo. (24) Non sappiamo la forma e i modi di acquisizione del feudo da parte di Fulco,, in eredità o per investitura dal Duca, ma senza dubbio era un uomo ambizioso, tenace combattente e avido di terre. Aveva, probabilmente, ingrandito il suo territorio, inglobando alcune porzioni di terre del vicino feudo di Giffoni, (25) inimicandosi sia il duca Guglielmo che la fazione normanna-longobarda, partito di cui l’ultimo Conte di Giffoni faceva parte. Nel luglio 1122, il duca Guglielmo, dopo aver sconfitto il conte Giordano, assediò il castello di Montecorvino. Fulco non riuscendo a resistere alle forze ducali si arrese, sottoponendosi di nuovo alla autorità del Duca. (26) Nonostante l’atto di sottomissione, il feudo venne smembrato e assegnato a vari militi, mentre il castello, parzialmente danneggiato, venne abbandonato per quasi due secoli.
Note:
-
“29 luglio 1560: Marcantonio de Sparano vende a Julio Denza vari beni fra cui un oliveto sito al loco detto la Ripa deli Corvi, pertinente Montecorvino, giusto i beni di Filippi Pezuti, il detto Denza et altri””. A.S.S.. notaio F. D’Alessio, B. 3252.
-
“Lungo la china che fiancheggia la via rotabile tra Rovella e Pugliano, verso la sommità di una sporgenza rocciosa, denominata Ripa del Corvo, si vedono tre grotte o meglio tre ripari sotto rocce. Ivi ritrovai tracce di vita umana primitiva con numeroso materiale di diversa stratificazione. Dopo un cinquanta metri, discendendo giù per la china coltivata ad ulivi, alcuni cavapietre ritrovarono una messe larghissima di bronzi, cocci e vasi”. L. Foglia, L’uomo neolitico nell’agro picentino presentata alla R. Accademia di Archeologia, lettere e Belle Arti, Napoli 1905, nuova edizione, Montecorvino Rovella 1996, pp. 9-10.
-
“Il Foglia parla dell’esistenza in località Ripa del Corvo, di tre ripari rocciosi, da identificare con quelli ancora oggi visibili nel costone roccioso a sud-ovest del castello, all’interno dei quali rinvenne un certo numero di materiali che, in base alla descrizione, sembrerebbero da collocarsi all’età del bronzo”. T. Cinquantaquattro , Dinamiche insediative nell’Agro Picentino dalla protostoria all’età ellenistica, in AION Archeologia Antica, vol. XIV, p. 252.
-
“L’insediamento antico si colloca sul lato orientale di un pianoro di forma stretta e allungata, delimitata lungo il margine settentrionale da due piccole alture delle quali la più orientale è occupata da Castel Nebulano, eretto in periodo longobardo. L’accesso al pianoro è possibile solo da ovest, tramite una ripida stradina naturale, mentre il pendio risulta scosceso e impraticabile sugli altri lati. L’insediamento è da porsi nella parte nord-orientale del pianoro, in una piccola conca naturalmente delimitata da rialzi del terreno, ai piedi della collinetta sulla quale in età medievale verrà innalzato il castello”. T. Cinquantaquattro, Dinamiche insediative nell’Agro Picentino dalla protostoria all’età ellenistica op. cit., pp. 251-252.
-
“Gli interventi di scavo qui effettuati nel 1986 hanno rilevato l’esistenza di tre fasi insediative: la più antica risalente al VII-VI sec. a.C. è indiziata dal rinvenimento, in un saggio, di fori per pali e da una fossa di scarico pertinente con probabilità ad una capanna”. T. Cinquantaquattro, Dinamiche insediative nell’Agro Picentino dalla protostoria all’età ellenistica, op. cit., pp. 251-252. “In un caso è stato possibile approfondire lo scavo sotto il livello del IV sec. a.C., giungendo fino a quello che, per il momento, costituisce il momento iniziale dell’insediamento: incavati nel paleosuolo argilloso sono infatti rinvenuti alcuni fori di palificazione, parte per un cavo di fondazione e una grande fossa di scarico, probabilmente pertinente a una capanna: in tutti questi elementi – come del resto sul piano archeologico ad essi connessi – è stata rinvenuta ceramica di impasto databile nel VII-VI sec. a.C.”. L. Cerchiai, L’Agro Picentino, in Poseidonia Paestum , Atti del XXVII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1987, Napoli 1992, pp. 810-813.
-
“il villaggio medievale si sovrapponeva direttamente sullo strato di obliterazione della fase insediativa del IV sec. a.C. Di tale fase che comporta probabilmente l’urbanizzazione dell’insediamento e si concluse alla fine del secolo o all’inizio di quello successivo, sono stati rinvenuti i crolli di tegole e pietre dell’elevato e del tetto delle abitazioni e un grande muro a secco in pietra e scaglie che costituiva forse un terrazzamento. Abbondante è la ceramica rinvenuta soprattutto nei tipi di quella in uso comune; attestato è naturalmente la ceramica a vernice nera e, degno di nota, è il rinvenimento di pesi da telaio e un anfora vinaria”. L. Cerchiai, L’Agro Picentino, op. cit., pp. 810-813. T. Cinquantaquattro, Dinamiche insediative nell’Agro Picentino dalla protostoria all’età ellenistica, op. cit., p. 252.
-
“La fase più recente riguarda l’insediamento medievale sviluppatosi in relazione al castello e verosimilmente in relazione allo sfruttamento agricolo del pianoro. L’insediamento era caratterizzato da strutture abitative precarie segnalate dal terreno da fosse circolari e buchi per l’alloggiamento di pali in legno che dovevano costituire l’elemento portante dell’elevato. In uno di tali fori è stato rinvenuto il bordo di un vaso chiuso recante sulla spalla una incisione a crudo C.T.”. L. Cerchiai, L’Agro Picentino, op. cit., pp. 810-813.
-
A.D.S. Reg. Mensa n. 33. “Il possesso signorile è domnicum, prato domnicum, terra domneca, hortus dominicus e vinea domnica. L’origine di vinea domnica è chiara: vigna del dominus o anche dipendenza specialistica dove si raccoglieva e si lavorava il vino del signore”. P. Natella, Vignadonica di Villa. Saggio di Toponomastica Salernitana, Agropoli 1984, pp. 12-13.
-
A.D.S., Reg. Mensa n. 33. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, Battipaglia 2001, p. 10.
-
“Item à Castello e proprio nel loco dove si dice l’Oliveto Grande del Capitolo, comune et indiviso anticamente con i Cappellani di Santo Pietro, et la Rettoria di Santo Eustachio nel quale oliveto il Capitolo ha la metà, et l’altra metà si dice che due parti sono dei Cappellani di Santo Pietro e la terza parte del Rettore di Santo Eustachio. Confina con l’eredi del dott. Giuseppe e Giovanni Maiorino, li beni di Domenico Maiorino, da due parti che è dalla parte di sotto, et dalla parte verso Gefuni co quello del fu Carlo Maiorino et la strata che và alla fontana del castiello, e infine verso Rovella con le Coste del Castiello”. Archivio di S. Pietro, Libro Campione n. V, anno 1634, pp. 50-148-305.
-
“Per il rimanente il castello si depopulava in quanto i contadini tornavano a casa propria dove si sarebbe ricoltivato nei luoghi non eccessivamente manomessi”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), Salerno 2018, pp. 78-79.
-
A. Di Muro, Le contee longobarde e l’origine delle signorie territoriali nel Mezzogiorno, in A.S.P.N., vol. CXXVIII a. 2010, p. 60. B. Visentin, Identità signorili e sistema di gestione tra età longobarda e normanna. Le terre del castrum Iufuni e la Trinità di Cava, in Archivio Normanno-Svevo, 3 a. 2011/2012, p. 38.
-
A. Di Muro, La Piana del Sele in età normanna-sveva. Società, territorio e insediamenti, Bari 2005, pp. 54–56.
-
“Nel IX secolo diverse furono le incursioni dei saraceni. Nell’871 vi fu un lungo assedio alla città di Salerno con saccheggi nelle zone periferiche, fra cui la vallata del Tusciano. Nell’877, i saraceni e i napoletani saccheggiarono Sarno, Mercato S. Severino, Montoro e Giffoni. Dall’ 882 ai primi decenni del X secolo, gli agareni trincerati ad Agropoli effettuarono numerose scorrerie nel Principato di Salerno. Le popolazioni locali pressate dalle continue necessità dell’assedio dell’ 871, furono costrette a costruire dei ripari murati sulla sommità del Locus Montecorvino”. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 14-47
-
A. Di Muro, La Piana del Sele in età normanna-sveva. Società, territorio e insediamenti, op. cit., p. 54.
-
“Lo sviluppo della turris è essenzialmente legato ad un punto e crudo servizio di conservazione: ogni 1500 metri sull’alto delle colline la si piazza perché avvisi sulle avanzate nemiche, la si dota di fuochi o lenti di richiamo per notte e giorno, e quando è necessario tre o quattro soldati possono stazionarvi, e alzano intorno recinti di animali da cortile o da macellare, terrazzi per la coltura di vegetali, pozzi o cisterne per l’acqua, avamposti di pietre per la prima difesa. Sono elementi che qualificheranno in seguito il castello isolato, per collegamenti con l’abitato, aspetto che troveremo fin nel basso Medio Evo italiano allorché in caso di assedi assisteremo alla lunga, incredibile alle volte, trattativa sulla consegna o meno del castello”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., p. 46.
-
“I duri Guglielmo e Guimondo erano partiti alla conquista della periferia cittadina. I nostri cavalieri si fecero alle immediate porte di Salerno, come detto per assoggettare Prato cioè Pastena fin verso S. Margherita, i beni di Angellara fra l’Arbostella sul mare e la pedemontana S. Leonardo-Fuorni. Dopo Salerno entrarono nell’ex actu longobardo di Stricturia tra Siglia-Campigliano e Giffoni, a Salsanico, villaggio distrutto vicino S. Vittore di Giffoni, scendendo di là nel Sele. Raggiunsero il fiume Picentino, lo oltrepassarono per setacciare i demi attorno il fiume Asa e al suo collega idrografico Rivoalto (oggi Rialto), addirittura più piccolo dell’altro e entrante in foce al Tusciano, oltre il quale si misurarono col grande lago costiero omonimo (più o meno dove oggi è la località Lago). Risalirono le colline ed entrarono nel Sele a S. Vito, onde procedere verso il castello olevanese e la vicina grotta del Montedoro. Il papa lo seppe, e scomunicò, e dopo la scomunica i due rinsavirono e restituirono i beni al papa Alessandro alla fine di settembre del 1067 nella città di Salerno”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. Il Gastaldato di Rota(VIII-IX secolo), Penta di Fisciano 2008, pp. 192-197-198.
-
A. Cerrone, Acerno nell’ottocento, Montella 2009, p. 291.
-
A. D’Arminio – L. Scarpiello – R. Vassallo – C. Vasso, La stratificazione dei toponimi nello <> tra tardo antico e il rinascimento, op. cit., p.102. A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 21-51.
-
“Una conformazione insediativa analoga a quella olevanese pare caratterizzare il territorio di Montecorvino nel Medioevo. Anche qui il centro del distretto era stato il castello che sorgeva sul Monte Nebulano, assediato ed espugnato nel 1122 dal duca Guglielmo d’Altavilla ma che risulta già distrutto al momento dell’acquisizione da parte di Romualdo Guarna. (Montem Corvinum quem olim castrum fuit et nunc dirutum est). Prima della distruzione l’insediamento era costituito da un palazzo edificato su una piccola motte artificiale, circondato da un fossato al di qua del quale si notano i resti di alcune abitazioni e una piccola chiesa, forse il nucleo di un villaggio, ma la limitata estensione dell’area lascia aperta l’ipotesi che si potesse trattare di un castrum esclusivamente signorile. Una cinta muraria (probabilmente ricostruita ai tempi della Guerra del Vespro, come si evince dalla tipologia delle torri) definiva l’area castrale”. A. Di Muro, Terra uomini e poteri signorili nella Chiesa salernitana (secc. XI-XIII), op. cit., p. 27.
-
P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., p. 78.
-
“Anche per Montecorvino si ripete ciò ch’è stato da tempo precisato: <>.<Castrum, castellum si applicano a un insediamento abitativo fortificato, città o villaggio…, ben di rado un castello nel senso di residenza signorile fortificata>> Strutturalmente l’abitato di Mercato Sanseverino restituisce l’idea di un aggregato antico di corti, e di piccole sale ove il primario indizio dei dintorni si subordinava piano piano alla creazione di slarghi, platee, cortili in uso ai servizi mercatali da ognuno conosciuti. Ruggiero ha a disposizione industria agraria, alimentare e commercio, e ne regola i corsi dal castello (intus ipso castro). Il 90% degli atti visti finora mostra in castello – tranne qualche caso eccezionale come il nominato priore – soldati, militi, gente di servizio, figli e nipoti. Non c’è, come suol dirsi, popolo. In poche parole, il castello vien su lì dove è sorto un micro centro vallivo urbano, o comunque demico se non vogliamo credere ad un che di costituito, e lo vediamo in tanti castelli della provincia”, P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., pp. 67- 76-77-78.
-
“Ruggiero si sente nei suoi domini come un capofara, del tipo consegnato dalla tradizione longobarda così ben restituita da Bona, cioè il movimentista di territori suoi propri di competenza, e deteneva un ceppo clanico generale di cui era capofamiglia e al quale i membri di esso erano sottoposti, anche strettissimi, fratelli cadetti (o maggiori se avessero scelto altro tipo di esistenza)”. P. Natella, I Sanseverino di Marsico. Una terra un regno. II. Dalle signorie alle contee ai principati (1081-1568), op. cit., p. 78.
-
“E’ sufficiente a nostro avviso ripercorrere le vicende narrate . Giordano, conte di Ariano, incontra alle porte di Nusco il duca Guglielmo, evidentemente signore anche di quella città, e lo ingiuria minacciandolo di <>. Il Duca non solo subisce l’affronto, ma assiste impotente al saccheggio della cittadina, effettuato dalla soldataglia che era agli ordini del Giordano; decide, però, di vendicarsi; all’uopo chiede aiuto al cugino Ruggero, gran conte di Sicilia, che gli fornisce armi e danaro. Il duca Guglielmo affronta quindi il Giordano, asserragliatosi nel castello di Apice e lo costringe alla resa dopo tre mesi di assedio; lo fa altresì prigioniero, ma, per intercessione di altri baroni, gli risparmia la vita. Si reca successivamente a Montecorvino presso Salerno, ove pone l’assedio a quel castello, ottenendone la resa”. A. Cerrone, Acerno nell’ottocento, op. cit., p. 256.
-
A. D’Arminio – L. Scarpiello – C. Vasso – R. Vassallo, Toponomastica storica montecorvinese, op. cit., pp. 19-42.
-
“Dux ipse (Guglielmo) Montem Corvinum, Salerni proximum , obsedit; Fulco itaque, dominus castri illius, quia resitere non poterat, castellum illud ducis submisit potestati”. Falconis Beneventani Chronicon Beneventanum, ediz. E. D’Angelo, Firenze 1998 a. 1122, I. 15, pp. 68-70. “Nel luglio 1122, il Duca assediò Montecorvino, ch’è vicino Salerno e Fulco che n’era Signore, non potendolo difenderlo, lo soggettò al dominio del Duca”. A. Di Meo, Annali critico diplomatici del Regno di Napoli della mezzana età, vol. IX. Napoli MDCIV.
fonte: montecorvinostoria.it
croce monte nebulano
Montecorvino Rovella (Nella zona orientale di Salerno, si denota ancora oggi una lunga nenea di fortificazione nata originariamente, presumibilmente in periodo longobardo (VI sec. D.C.), a protezione della pianura che dalla fascia costiera si estende sino alla zona collinare interna a ridosso dei monti Picentini.La naturale conformazione della zona montana e collinare, ha favorito, in epoche diverse, ma ravvicinate, la opportuna edificazione di castelli finalizzati allo sfruttamento dei luoghi più favorevoli per la collocazione e costruzione. Da “ Fuorni”, ove si ammirano le mura dirute del castello di Monte Vetrano, castel Vernieri e la torre dei Rossi sino al Castello di Terravecchia, seguendo il percorso del fiume Picentino, si arriva ad osservare il Castello Nebulano, ovvero quello che rimane delle sue mura, posto al di sopra dell’abitato di Montecorvino Rovella. La suddetta linea di fortificazione prosegue con il Castello di Olevano, la Castelluccia di Battipaglia Eboli, sino a raggiungere Oliveto Citra. Questa fascia di fortificazione fu rinforzata e trarrebbe origine dalCastello Arechi di Salerno sin dall’XI secolo, distrutta e ricostruita in epoca normanna, riproposta in epoca angioina sino in periodo aragonese alle soglie del XVI secolo, quando con Vicereame spagnolo molte di queste citate fortificazioni furono abbandonate e preda di saccheggi, crolli e sterpaglie. Il Castello di Montecorvino era definito come “ castrum nubilarum o nubolarum” come si rileva dal “ Poliorama Pittoresco” dell’agosto 1836, articolo pag.325/326 di V. Morgigni Novella. Nello stesso articolo vengono azzardate alcune ipotesi sul nome : la prima, perché la sua altezza lo proiettava tra le nuvole; la seconda ( la più affidabile) perché sovrastava la frazione Nuvola. (Ce ne sarebbe anche una terza che riferiamo solo a titolo di cronaca, inventata da qualche anonimo buontempone e derivante dalle tradizioni orali: che ivi venivano condotte le donne nubili rapite). La denominazione latina del Castello farebbe risalire la sua origine ai “ Castella “ che i Romani costruivano sui punti strategici a difesa delle coste e delle popolazioni della pianura. Erano opere di fortificazione costituite da palizzate circondate da un fossato (Vallum) e il nostro Castello dominava la pianura tra Salerno e Paestum, come ci conferma l’Herchemperto. Infatti, nell’850 d.c., dopo che il Castello era stato ricostruito in fabbrica (Fabrite)con i Longobardi, servì da rifugio alle popolazioni di quella pianura dalle incursioni saracen e insieme al Castello di Olevano. Nel Chronicon di Falcone Beneventano si rileva l’assedio del Castello Nebulano ad opera di Guglielmo il Normanno, duca di Puglia e Calabria, nel 1122, nella vasta opera di presa di possesso dell’intera Italia Meridionale. Nel 1137, quindici anni dopo, il Re Ruggiero II, padre di Guglielmo, per vendicarsi dei Montecorvinesi che si erano schierati con il Papa Innocenzo II e l’Imperatore Lotario di Occidente, suoi acerrimi nemici, assalì il castello e lo distrusse incendiando le Chiese e l’intera città (in tale occasione fu distrutta anche l’Antica Abazia di S.Simeone sulle cui rovine venne costruita nel 1274 la Chiesa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo). Una testimonianza di non poco conto si ebbe nel 1167, quando, con privilegio del Duca Guglielmo e di sua madre la Regina Margherita di Sicilia, il castello Nebulano venne donato all’Arcivescovo Romualdo di Salerno e nell’atto di donazione si riscontra questa dicitura: Quod olim castrum fuit et nunc dirutum est (una volta fu Castello ed ora è distrutto). In pochi anni la città ed il Castello furono riedificati e rafforzati con maggiori difese con la costruzione di torrette di avvistamento, di mura perimetrali intorno alla Bassa Corte e porte di accesso ( oggi una appena visibile dalla parte della località “ Battaglione “ ). Ma la pace cittadina non ebbe vita lunga. Infatti, quasi al termine della dominazione angioina, nel 1392, scoppiata la guerra tra Ludovico d’Angiò e Ladislao di Durazzo, il Castello offrì rifugio ai Sanseverino, di parte Angioina , mentre Ladislao aveva già preso possesso di Giffoni, Eboli ed altri paesi viciniori. In questo fatidico anno, 1392, l’armata di Ladislao di Durazzo, capitanata da Alberico di Barbiano, espugnò di nuovo il Castello e saccheggiò di nuovo Montecorvino. Lentamente, Montecorvino fu ancora una volta ricostruita dopo alcuni anni, quando Alfonso I di Aragona prese pieno possesso del Regno di Napoli. Il 24 giugno 1494 fu una data epocale per Montecorvino Rovella, infatti, Alfonso II di Aragona, come segno di riconoscenza nei confronti dei Montecorvinesi che avevano sostenuto in fatto d’Armi il Re Alfonso I, conferì il titolo nobiliare a 23 famiglie del luogo, 16 erano del “Actu Rubellae” e 7 del “ Actu Puleani e S. Teclae “. Per onor del vero, alcuni di queste famiglie ricevettero il titolo nobiliare“ a titolo oneroso“ previo pagamento di un onere stabilito dalla Gran Corte. All’alba del XVI secolo ebbe inizio una profonda lite tra la Mensa Arcivescovile di Salerno ed il Regio Demanio per il pagamento dei Castellani di Montecorvino e di Olevano. Il territorio montecorvinese, da circa quattrocento anni, era diviso in due tra il possesso della Mensa ed il possesso del Re, ma la questione si risolse in favore di quest’ultimo nella seconda metà del 1400 e da qui il motivo per cui la Chiesa si rifiutava di pagare i Castellani. Il 10 marzo 1559, il Viceré Ferdinando d’Avalos, con atto solenne, esonerò la Mensa Arcivescovile di Salerno dal pagamento sopra riferito e fu l’inizio dell’abbandono del Castello che nel volgere di pochi anni cadde in rovina e fu adibito a ricovero per i greggi di ovini e bovini. L’interesse per il Castello Nebulano ritornò alla fine del 1800, grazie al fantasioso romanzo dello scrittore napoletano Francesco Mastriani, ospite della famiglia Maiorini dall’ottobre 1877 al marzo 1878, il quale ambientò un romanzo “ La Sonnambula di Montecorvino “ in un fantomatico Castello identificato con il nostro Castello Nebulano e creò un personaggio, il Conte Baldassarre di San Pietro, destinati a segnare una tappa fondamentale nella letteratura napoletana e locale, tanto da essere scambiata anche per storia vera.
NUNZIO DI RIENZO