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L’edificio ottocentesco della Madonna della Pietà

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La cappella originaria, di epoca normanna, era denominata col titolo di Santa Maria della Rocca. Nel corso del Seicento troviamo le prime tracce del titolo della Pietà, nome che venne definitivamente assegnata negli anni ’50 del Settecento. Nel 1758, infatti, i Confratelli della Confraternita di S. Filippo Neri ottennero dal Capitolo di S. Pietro la Chiesa di Santa Maria della Rocca seu Pietà.
 
L’attuale edificio sacro, invece, è da ritenersi costruito dalla Confraternita e dal Magn. D. Lorenzo Pizzuti a partire dal 1827, quando fu stipulato l’atto di convenzione tra le parti. Il Pizzuti si impegnava ad innalzare le mura perimetrali e a voltare la copertura completandola con il tetto e apponendo la porta nel vano già predisposto, secondo il progetto voluto dalla Confraternita. Da questo si suppone che le fondazioni per le pareti e le spese per il progetto erano già state pagate dal sodalizio, il quale si impegnava a finirla internamente. Tra le condizioni dell’atto era stabilito che la vecchia chiesetta, posta all’interno del recinto murario, doveva essere demolita ad opera conclusa onde consentire la continuità e la funzionalità dell’oratorio.
 
Documento
“24 maggio 1827 in casale Rovella
Si costituiscono in Nostra presenza il Sign. D. Lorenzo Pizzuti del Fu Sabato. E il Sign. D. Michele Curci del fu Sign. Nicola, Dottore in Medicina e il Rev. D. Donatantonio Budetta, del fu D. Agostino, Sacerdote e Canonico, rappresentanti rispettivamente Priore della Confraternita di S. Filippo Neri, sotto la potestà della Vergine Addolorata, e Procuratore del Rev. Capitolo di S. Pietro.
Le parti hanno esposto che mosso il Sign. Pizzuti da attaccamento verso la Santa Religione, e da spirito di devozione ha risoluto, è vuole a di Lui spese compiere l’Oratorio della Madonna della Pietà, posto tra la i Monasteri dei Padri Cappuccini e Riformati di questo Stato di Montecorvino, principiato detto fabbricato da tempo remoto, e come detta Chiesa appartenga a detta Confraternita e Capitolo, i quali non hanno avuto mezzi per il passato e per il presente poter proseguire il Sacro Edificio, come stabilito dai loro Antecessori, per comodo di celebrazione, nonché per il bene spirituale dei fedeli, stipulando i detti articoli e convezioni.
Resta autorizzato detto Sign. D. Lorenzo nello spazio di anni sei di compiere di rustico l’incominciata Chiesa della Santissima Vergine Addolorata o sia Pietà a totale sue spese, senza cambiare o restringere il disegno, e l’attuale pianta, in proseguire l’innalzamento della fabbrica e coprirla a volta di lamia rada, ed ivi sopra con armaggio di legno e tetto, il tutto a regola d’arte, e quindi costruirvi la porta di legno per quanto è il vano, ed presentemente la sua grandezza, con corrispondenti ferramenti e serrature a due chiavi, da consegnarsi a detta Confraternita e Capitolo.
L’Antica Chiesetta nel recinto dell’attuale fabbricato debba essere demolita dopo costruita la nuova chiesa à spese della detta Congregazione cui spettano i materiali.
Deliberazione della Confraternita del 17 settembre 1826:
Che esso Sign. D. Lorenzo Pizzuti si obbliga di terminare a regola d’arte l’innalzamento delle mura del sudetto Oratorio e Sagrestia, giusto la pianta esistente, voltarvi la pianta e coprirla con armaggio e tetti, e similmente sistemarvi la porta di ingresso ferrarata secondo attualmente esiste, e così di solo rustico interno ed così rimanerlo.
Conclusione Capitolare del Capitolo di S. Pietro del 16 gennaio 1827:
Finalmente che l’attuale Chiesetta deve essere messa, senza compire la grande, quale compita si potrà fabbricarsi, e i materiali siano della Congregazione”.
A.S.S., Notaio G.A. Sorrentino, N.V. B. 3388
 

fonte: montecorvinostoria.it

 

chiesa della pierà

 
 
 

S. Martino nel Medioevo: S. Michele-Lu Caminu

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S. Martino nel Medioevo: S. Michele-Lu Caminu.
Lungo l’antica strada medievale che conduceva a Ferrari e Rovella, su di una piccola motta naturale, delimitata da due valloni, fu costruita, con molta probabilità, una piccola torre di controllo da parte di un milite dipendente dal Signore del feudo di Montecorvino.
Nel corso della prima metà del XII secolo, probabilmente, un bono homines, appartenete alla vecchia nobiltà longobarda, divenuto milite si insediò con la sua famiglia nel sito della vecchia torre normanna. Il luogo per la sua conformazione orografica ben si prestava alla costruzione di piccoli insediamenti fortificati, avendo nelle sue vicinanze il fiume Cornea, due valloni provenienti da Nuvola, l’antica strada medievale e una sorgente superficiale di acqua.
 
Tutte queste caratteristiche geografiche convinsero il nuovo milite a costruire nella parte sommitale un edificio fortificato, dotato di torre, mura, pozzo sorgentifero e cortile interno. L’accesso, probabilmente, era posto sul lato Est della via pubblica, attraverso un sentiero terrazzato e murato che consentiva il passaggio degli uomini, delle merci, degli animali domestici e dei buoi. Nella parte inferiore si sviluppava l’abitato servile, costituito dalle case dei villani, dei serventi, dai depositi agricoli e dalle stalle. Il tutto era predisposto su più livelli e circondato da mura in legno o in muratura. La casa signorile aveva, con molta probabilità, nei vani terranei un grosso forno, in quelli superiori uno o due impianti per accendere il fuoco e una grossa cappa fumaria addossata alle mura dell’edificio, Questa struttura per le sue dimensioni e per la sua unicità rappresentava per il proprietario e suoi villani un vanto e un orgoglio e per gli abitanti dei centri umanizzati vicini un punto di riferimento geografico. La presenza, quindi, di tale impianto, portò nel corso degli anni a identificare questo piccolo borgo signorile col nome di Lu Caminu, toponimo documentato nel secolo successivo (2) ma, quasi sicuramente, nato nella prima metà del XII secolo.
Dal latino Caminu = focolare. Impianto per accendere il fuoco all’interno di un edificio, addossato a un muro e costituito da un piano rialzato in pietra, sormontato da una cappa fumaria. Dal greco kàminos = forno fucina.
 
Negli anni ’50 e ’60 del secolo l’edificio apparteneva ad Ademario Giudice, milite di Montecorvino e proprietario di un piccolo feudo allodiale, tassato nel Catalogo dei Baroni per un solo villano. Il nostro era espressione della vecchia aristocrazia longobarda sopravvissuta alle espropriazioni e alla perdita del potere politico durante la prima fase della conquista normanna, il quale riesce ad entrare nell’élite locale come membro autorevole della nobiltà militare e come giudice di Montecorvino. Il possesso di un piccolo patrimonio personale, ereditato dal padre, le sue competenze giuridiche, e l’amicizia con l’arcivescovo Romualdo Guarna, gli consentirono di essere, fin dalla acquisizione del feudo di Montecorvino da parte della Chiesa Salernitana, un esponente di spicco della nuova burocrazia feudale. Nel luglio del 1168, insieme ai giudici Pietro e Guiscardo, nella chiesa di S. Martino conduce un’inchiesta sulle prestazioni e le corvée dovute dai vassalli e dagli homines militum di Montecorvino al nuovo signore feudale. Sempre nel stesso anno, per conto di Romualdo Guarna si reca con la medesima mansione nella terre di Eboli per l’inquisitio sulle prestazioni feudali dovute alla Chiesa Salernitana dagli abitanti e dai proprietari di Campolongo.
 
Questa proficua attività di giudice nei feudi della Chiesa Salernitana, le conoscenze acquisite e le amicizie instaurate con gli uomini di Montecorvino ed Olevano nel corso degli anni gli fruttarono potere, profitto economico e ascesa sociale all’interno della società montecorvinese, consentendogli di accumulare un discreto patrimonio personale e di stringere rapporti e legami famigliari con il milite Goffredo De Corsellis. La lunga permanenza nell’ufficio ad Olevano lo portarono, probabilmente, più volte a frequentare il vicino santuario di S. Michele, influenzando profondamente la sua spiritualità e la sua fede verso il Signore e l’Arcangelo Michele. Per ringraziare il Santo per averlo aiutato nei suoi lunghi anni nella vita professionale e famigliare, decise, con molta probabilità nell’ultimo quarto del secolo, di fondare una cappella privata dedicata a S. Michele. Costruì vicino alla sua casa un piccolo edificio religioso, dotato di altare, sepolture e di beni necessari al funzionamento della chiesa. Il privilegio di erigere la cappella vicino alla propria abitazione era dovuta all’eminente posizione sociale da lui occupata e all’amicizia con le autorità ecclesiastiche locali. La motivazione del giudice sulla fondazione vanno ricercate sia alla devozione a S. Michele sia alla volontà di assegnare un luogo fisico di unità e di appartenenza per se e i suoi discendenti.
 
Matteo, figlio ed erede di Ademario, proseguì le funzioni paterne, continuando ad essere un fedele seguace della Chiesa Salernitana. Il giovane rampollo, obbedendo al vecchio padre, si sposò con d. Alda, figlia di Goffredo de Corsellis, ricevendo in dote diversi beni. Il matrimonio fu senza dubbio il sugello politico della avvenuta pace e concordia fra le due famiglie, appartenenti a due schieramenti contrapposti: i vecchi militi, di cui Goffredo era uno dei capi, e gli ufficiali e i boni Homines, partigiani e fedeli fautori dell’Arcivescovo Feudatario. Membro autorevole della nuova élite montecorvinese, faceva parte senza dubbio di quella schiera della piccola nobiltà salernitana, che per autotutelarsi dalla nuova nobiltà sveva aveva costituito una sorte di consorteria, capeggiata e guidata dagli Arcivescovi di Salerno. Nel mese di agosto 1228 per esaudire la volontà della figlia Costanza di farsi suora dona al monastero di S. Giorgio un pezzo di terra con olive nel luogo S. Martino, propriamente dove si dice Casa Marzana. L’entrata di Costanza nel prestigioso monastero di S. Giorgio, prerogativa e privilegio riservato alle famiglie nobili salernitane, dimostra senza dubbio l’appartenenza di Matteo e di sua moglie all’ élite salernitana e al ruolo di primo piano svolta dalla famiglia Giudice nella società montecorvinese.
 
Gli eredi di Ademario continuarono ad essere i patroni della cappella di famiglia dedicata a S. Michele, mantenendo in buono stato l’edificio sacro e nominando pacificamente i rettori della chiesa. Negli anni ’60 del secolo il beneficiato era il presbitero Mantenna. Alla sua morte, a causa della vacanza della sede episcopale di Acerno, la cappella rimase senza il rettore. Alla venuta del nuovo vescovo Luca, i compatroni “Filippo Giudice, figlio del fu Ademario Giudice, Andrea, nipote di detto giudice e figlio del fu Matteo giudice e notaio, e Matteo, similmente nipote del detto giudice Filippo e figlio del fu Ademari, dichiarano che sono patroni della ecclesia di S. Michele, costrutta in loco qui detto lu Caminu, pertinenzia di Montecorbino, diocesi di Acerno. Ora avanti a Luca, Vescovo di Acerno, presentano Giovanni Della Porta, figlio del fu Tomaso, come rettore di detta chiesa, con l’obbligo di curarla e tenerla bene, celebrando le messe di suffragio e la festività del Santo”.
La Guerra del Vespro e la successiva crisi demografica trecentesca, portò a una maggiore riconsiderazione del sito e alla nascita, con molta probabilità, di un altro piccolo nucleo umanizzato. Costruito da un piccolo proprietario terriero, legato da vincoli di vassallaggio all’Arcivescovo Feudatario, era costituito da una caseggiato a corte chiusa, con porta sotto arco, mura di recinzione e da un pozzo sorgentifero.
Nei primi decenni del ‘400 assistiamo alla emigrazione graduale dei vari rami dei Giudicemattei verso Pugliano e Rovella, la perdita del patronato della chiesa di S. Michele e uno spostamento dell’edificio sacro verso l’attuale sito con l’apertura di una nuova “strettola”.
 
Nel corso della prima metà del secolo, il Vescovo di Acerno, sollecitato da una crescita demografica nella zona di S. Martino-Nuvola, decise di istituire una nuova parrocchia nella chiesa di S. Michele. La scelta fu dovuta, probabilmente, anche all’esigenza della curia vescovile di contrastare la crescente influenza della vicina parrocchia di S. Martino. Nel 1452 l’arcivescovo di Salerno, in visita nella suffraganea di Acerno, si reca nella chiesa di Michele, retta dal cappellano d. Pietro de Anello di Gauro. L’edificio, crollato probabilmente a causa di un terremoto, si ritrova in parte ricostruito, per cui il prelato ordina che venissero ripristinate le parti ancora dirute. La chiesa, nonostante le pessime condizioni strutturali, custodiva decentemente l’eucarestia e il fonte battesimale ed era fornita delle necessarie suppellettili alla celebrazione della messa.
Come abbiamo detto prima, la crescita demografica favorì la nascita due nuovi piccoli caseggiati sulle due vie contigue alla chiesa e l’arrivo di nuove famiglie. Le vecchie case dei Giudicemattei furono comprate da alcuni membri degli Oliviero e Maurello, i quali ricostruirono e ampliarono il costruito esistente, rendendole più confortevole e idonee alle nuove esigenze famigliari.
 
Gli Olivieri, famiglia di origine vassallatica, si trasferirono dalla vicina parrocchia di S. Eustachio, intorno alla metà del secolo, abitando nelle antiche case dei Giudicemattei e nei nuovi edifici costruiti nella seconda metà del ‘400. Cresciuti di numero e ricchezza, ottennero con Eustachio nel 1494 il titolo di baroni di Montecorvino.
Le abitazioni e i beni in possesso dei Maurello, invece, furono vendute da Carlone alla famiglia napoletana dei Rodoero. Nel maggio 1466, il Maurello si reca nello studio del notaio de Pilellis di Napoli, dichiarando che possiede “una casa palaziata, con giardino, arbusto, ed oliveto, sita nella Villa di S. Martino dello Stato di Montecorvino, confinante con la via pubblica, il vallone ed altri confini. Ora per sue necessità vende detti beni ai Signori Ludovico, Giacomo e Gio Lionardo, padre e figli di Napoli, per lo convenuto prezzo di trenta oncie d’oro”. Come si nota dall’istrumento di vendita il bene venduto era una semplice casa “palaziata” con orto e oliveto contiguo e non una villa, come erroneamente riportato dal Giustiniani nel suo Dizionario sul Regno di Napoli. Il termine villa, invece, si riferisce al villaggio di S. Martino e indica chiaramente che in questo periodo il nostro piccolo borgo era parte integrante dell’intero casale di S. Martino.
 
Ludovico Rodoero, figlio di d. Enrico e d. Lombardella Simia, nobile napoletano del sedile Montagna, discendeva da un Ludovico, cavaliere angioino venuto nel Regno di Napoli con la conquista del Regno da parte di Carlo I D’Angiò. Nel 1430 si sposò con Betta Feramonica, dama del seggio di Nido, da cui ebbe Giacomo, Gio Leonardo e Faustina. Negli anni ’60 abitava nel quartiere S. Arcangelo del seggio di Montagna e possedeva una “certa domo in Platea Arcu, giusto ecclesia Santi Paoli, consistente in un palatio cu cortileo, quattro camere superiore, sala e vani terranei sulla strada pubblica”. Benvoluto da re Ferrante I, ottenne nel luglio 1463 il titolo di Maestro Razionale della Gran Corte della Regia Zecca per lo sedile di Montagna. Alcuni anni dopo gli fu “affidata una indagine su mandato del Re per indagare e appurare con documenti e scritture autentici, nonché da testimoni degni di fede, se siamo stati informati che alcuni uomini dell’Atto di Rovella [segue elenco] e dell’altro Atto di Pugliano avessero vissuto da tempo immemorabile [da lungo tempo] alla maniera dei nobili.
 
Probabilmente per svolgere diligentemente tale incarico decise di comprare il palazzo di S. Martino, stabilendosi in esso per alcuni mesi dell’anno, indagando per conto del Re Ferrante I sulla nobiltà e la consistenza economica di alcune famiglie del luogo. Nel 1471, “per alcune gravi inimicizie, che contrasse con altri Nobili e Valletti della Città di Napoli, essendo accaduti alcuni disordini, risultò insieme ai figli Gio Leonardo e Giacomo inquisito di omicidio, quindi procedendo contro di essi la G.C. della Vicaria stimò sospendere i privilegi che godeva per essere Maestro Razionale e di procedere contro di essi. Il Nostro fece ricorso al Re che con lettera del luglio 1471 confermo tale causa, ordinando che in via provvisoria i Rodoero fossero allontanati da Napoli. E all’occasione che il Nostro aveva acquistato nel 1466 la detta casa palaziata con giardino nella Villa (Villaggio) di S. Martino dello Stato di Montecorvino, ivi trasferì la sua dimora insieme a Gio Leonardo, suo figlio, protestando contro tale atto con istrumento pubblico del notaio Martino Romaniello di Napoli nel febbraio 1472”. Da quanto riportato da Agostino Ariani, il Nostro visse sino alla morte a Montecorvino, insieme alla sua famiglia, costretto, come si è visto dall’ordine reale, a non ritornare a Napoli in nessun caso e per nessun motivo onde evitare ulteriori episodi di liti o di disordini fra le vecchie fazioni.
 
Gio Leonardo, nato negli anni ’30 del secolo da Ludovico e Betta Feramonica, fu nobile napoletano del seggio di Montagna e ricoprì diversi incarichi politici nella città di Napoli. Nel 1463 fu eletto “Deputato della Città di Napoli per lo Seggio di Montagna quando chiese al Re il pagamento del debito di duc. 500, quale residuo dei duc. 1.000 promessi dal Sovrano per la riparazione delle mura della città”. Negli anni ’50 o ‘60 del secolo si sposò con la nobildonna Laudonia Denza da cui ebbe Giacobetto ed Enrico. Abitò fino al 1471 sempre a Napoli insieme alla moglie e i figli per poi trasferirsi definitivamente a Montecorvino, dove suo malgrado fu costretto a vivere fino alla sua morte. Dalla documentazione riportata da Agostino Ariani lo ritroviamo sempre presente con il padre e il fratello ne gli atti famigliari e nella triste vicenda dei tumulti dei del 1471, quando, secondo il mio parere, fu fra i principali facinorosi e autore, forse, dell’omicidio di uno dei suoi avversari. Nel corso degli anni ‘70 o ’80 del secolo, fondò e costruì insieme ai figli una cappella gentilizia all’interno della Parrocchiale di S. Michele, dotandola di beni, altare e sepoltura famigliare.
Nel secondo quarto del ‘400, nel nostro borgo o in altri nuclei umanizzati di S. Martino viveva un certo Barnaba Maurello, famoso e rinomato maestro d’arte, ricordato con grande enfasi dall’Arcivescovo Pietro Guglielmo de Rocha nel 1476. L’esercizio di tale attività artigianale era una prerogativa di alcune famiglie, che tramandandosi i segreti e i saperi manuali di padre in figlio, ne custodivano gelosamente l’arte. Nel feudo di Montecorvino, questo tipo di attività era regolamentata e permessa di volta in volta dalla Chiesa Maggiore di Salerno, la quale per evitare che persone senza il suo permesso esercitassero tale attività ordinava ai suoi ufficiali di controllare e vigilare minuziosamente sull’intero territorio feudale. Nel novembre del 1476, il predetto Arcivescovo Rocha, per riconoscenza che la Chiesa aveva avuto per il fu Barnaba, concede al nipote Bernardino Maurello, figlio del fu Agari “per essere sempre stato Maestro d’Arte il privilegio e la concessione di poter esercitare tale magistratura. Ordina ai suoi Ufficiali, al Capitano e al Baiulo di Montecorvino di rispettare il suo volere, permettendo al detto Bernardino di poter esercitare senza nessun impedimento l’attività di Maestro d’Arte”.
 
La famiglia appare già divisa in più rami e presente sia nel nostro piccolo borgo sia nell’abitato della Croce. A S. Michele, probabilmente, abitavano un Angelillo, conduttore di un “arbosto” a Battipaglia nel 1437, Masio, testimone in un atto del 1465, e Carlone, proprietario di parte del caseggiato dei Giudicemattei. La condizione economica come si evince era variegata a seconda dei vari personaggi presi in considerazione. Nonostante questa diversità sociale, un suo esponente, benestante e ben inserito nel tessuto sociale della Parrocchia, di cui ignoriamo il nome, fondò a fine secolo una cappella gentilizia dedicata a Maria Maddalena nel primo luogo della chiesa di S. Michele. La posizione della cappella, posta subito vicino all’altare maggiore è il segno che questo personaggio aveva un patrimonio personale e una disponibilità economica tale da consentirgli sia di godere di un buon tenore di vita sia di fondare una cappella famigliare. Questo edificio privato, costituito da un altare e una sepoltura, era fornito di beni dotali e rappresentava senza dubbio un luogo privilegiato di unità e appartenenza per se e i suoi discendenti.
 
Per consultare l’intero testo vedi il sito www.montecorvinostoria.it alla voce Borghi: S. Martino
 

IL CONVENTO DEI SERVITI ORA CIVICO CIMITERO

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Nella località Annunziata di Montecorvino Rovella, ove ora sorge il cimitero comunale, fu fondato nel 1509 un Convento dei Padri Serviti della SS. Annunziata, in onore di una stupenda immagine della Madonna della SS. Annunziata che vi si venerava ed alla quale venivano attribuite molte grazie. Il 14 giugno 1656, le nostre zone, come tutte le altre del Regno di Napoli, furono flagellate dalla peste.

Montecorvino, che allora comprendeva anche Pugliano, ebbe circa 3200 morti che furono accumulati indiscriminatamente nelle fosse sotterranee delle Chiese, siano esse patronali che parrocchiali, e si crearono enormi cumuli di cadaveri che ancora oggi vengono alla luce in occasione di restauri o di scavi. Molte sepolture furono effettuate nel Convento dei Serviti, cui facevano ricorso sia famiglie gentilizie (con donazioni) sia i vari Parroci della zona a causa, come sopra specificato, della mancanza di posto e di ulteriori spazi.

Le sepolture vennero effettuate anche nel giardino di detto Convento. Dopo alterne e tormentate vicende, già agli inizi del 1700, questo Convento era scarsamente abitato e frequentato, tanto che nel 1770 per ordine Reale il Convento fu soppresso e totalmente abbandonato. I locali erano esposti alle intemperie, le tettoie crollarono, come pure i muri di recinzione. Il culto della Madonna rimase ed è esistente ancora oggi. I ruderi rimasero proprietà della Congregazione della carità. L’Editto di St. Cloud del 12 giugno 1804, venne esteso in Italia con la legge dell’11 marzo 1817, e con esso si vietava la sepoltura di cadaveri dentro o vicino i centri abitati perché ciò era di pregiudizio per la salute pubblica. Nelle Chiese non era più consentito seppellire cadaveri, anche se con assenso del Re, potevano ancora avvenire sepolture in esse, con Decreto, esclusivamente nelle Cappelle Gentilizie.

Le sepolture continuavano nel luogo dell’Annunziata, abusivamente o per tacito consenso delle autorità ecclesiastiche , e vi era incombente il pericolo di saccheggio o di trafugamento delle tombe sulle quali volutamente non veniva apposta nemmeno una croce per non consentire l’individuazione.Le cose andarono sempre peggiorando per l’indiscriminato uso ed abuso del luogo, e il Comune fu costretto, il 29.11.1865, a nominare una apposita Commissione per la costruzione di un Camposanto in quella località che risultò la più idonea per tale utilizzo.

La Commissione era composta dall’architetto Lorenzo Casalbore, e dai signori Domenico Sparano, Pasquale Budetta, Maiorini Vincenzo e Filippo Gubitosi. Dichiarato idoneo il sito, soltanto l’11 ottobre 1880 i lavori ebbero termine e la Congregazione della carità, riscuoteva un canone annuo per la concessione contemporanea di Chiesa, fabbricato e giardino dell’Annunziata, ristrutturati alla meglio per migliorare la funzione cimiteriale. Ma già l’11 febbraio 1881 si provvide alla riparazione della tettoia della Chiesa e, il 10 aprile 1882 si ebbe la nomina del primo cappellano del cimitero nella persona del Sacerdote Marco Crocca da Rionero.

Il 29 novembre 1896, su relazione del consigliere comunale sig. Budetta Conte Ferdinando, si recepì l’urgenza di provvedere ad ulteriori lavori di riparazione sollecitati più volte dal Parroco Provenza. Il cimitero che sin dagli inizi del sec. XX aveva assorbito giardino e fabbricato della precedente costruzione, è stato più volte soggetto a ristrutturazioni ed ampliamenti.

 

Con la scomparsa della Congregazione di carità, tuttavia, rimase in vita la sola Chiesa che, per mancanza di manutenzione, negli anni sessanta, si ridusse ad un rudere e fu addirittura chiusa, nonostante il cimitero avesse la sua funzionalità, ma restava privo di una Cappella cimiteriale.Una definitiva ristrutturazione ed una sistemazione idonea al decoro del luogo si ebbe negli anni settanta e la Chiesa riassunse finalmente la funzione di Cappella Cimiteriale.

Con l’abbellimento del Cimitero, seguirono anche i rifacimenti dei fabbricati delle varie Congreghe, contribuendo a migliorare il luogo che continuava ad estendersi fino a lambire le sponde del torrente Cornea. Con la separazione del Comune di Bellizzi , nel 1990, è diventato Cimitero Consorziale ed il resto è storia dei nostri giorni.

© Nunzio Di Rienzo

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La Grotta del Salvatore di Gauro

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La grotta del Salvatore è un luogo in cui da tempo immemore si venera il Cristo Trasfigurato. Essa si apre nella parete rocciosa rivolata verso Giffoni, a un’altezza di ca. 700 metri s. l. m. Vi si accede attraverso un sentiero che corre lungo le falde della montagna. Partendo dal rione Carpineto si attraversa il passo che immette nella valle del Picentino, dirigendosi in seguito verso i costoni detti “Ripe del Salvatore”. Si giunge quindi a un boschetto. Lo si attraversa prevenendo ai piedi della scalinata che porta alla grotta. In essa si trova il quadro raffigurante la Trasfigurazione e un altare per la messa. Poco al disotto della grotta vi è un altro piccolo anfratto naturale popolarmente conosciuto come “a cisterna” oppure “a cella”, nella quale dimoravano gli eremiti. Nella grotta dell’eremita sono ancora visibili i muri in pietra, che delimitavano i vani della rudimentale dimora, e la cisterna scavata per la raccolta dell’acqua piovana.
 
La grotta è sita poco al disopra dell’antico sentiero che da Gauro conduce al piano di Rotonda. Essa era un antico culto pagano sostituito dalla devozione cristiana per il SS. Salvatore durante il medioevo. Nella zona irpino-salernitana è documentata fin dal XII secolo la diffusione del culto del SS. Salvatore ad opera di S. Guglielmo da Vercelli. Possiamo quindi ipotizzare che un eremita di spiritualità monastica, seguace del fondatore di Montevergine, abbia scelto l’anfratto esistente per propagare tale devozione alle popolazioni circostanti. Nel XV secolo l’istituzione della festa liturgica della Trasfigurazione, fissata al 6 agosto, si è innestata sull’antica devozione del Cristo Salvator Mundi, ridando vigore alla cappella ubicata nella grotta. Un ulteriore testimonianza della ripresa cultuale nella popolazione è l’erezione di una cappella privata all’interno della parrocchiale ad opera di Paolo Perillo nel 1544.
 
I continui lasciti alla chiesa rupestre da parte dei fedeli consentirono l’istituzione di un beneficio, che nel 1598 fu assegnato alla dignità dell’Arciprete. Mons. Serrano, nelle sue Relazioni ad Limina, afferma che il Capitolo era tenuto, nel giorno della Trasfigurazione, a recarsi in processione sulla grotta e a celebrarvi la messa cantata. Altre messe venivano celebrate nel corso dell’anno a devozione dei fedeli. Il fenomeno cultuale era tale da attirare un cospicuo numero di devoti anche dai paesi viciniori, consentendo lo svolgimento di una fiera che si teneva dai vespri del 5 agosto fino alla serata del giorno successivo. Lo Jus di Piazza sui prodotti venduti apparteneva nel 1634 a Nicolantonio Del Pozzo, il quale lo cedette alla cappella del Salvatore, favorendo l’istituzione di una confraternita ad essa dedicata. Questa venne istituita da Mons. Serrano il 17 marzo 1636 ed aggregata dal successore Bonsio all’Arciconfraternita del Salvatore di S. Giovanni al Laterano il 5 febbraio 1639. Dopo pochi decenni il sodalizio scomparve a causa delle peste e del conseguente calo demografico. Negli anni ’80 del secolo il sacello era custodito dall’eremita Giovanni de Arminio, della provincia di Matera, il quale nel 1691 donò “alla chiesa del SS. Salvatore, per amore e devozione che ha verso di essa e per essere eremita in essa da bono tempo un cavallo, una asina, quattro pecore e quattro capre, offrendosi di servire detta chiesa”. Probabilmente l’eremita dimorava nella grotta situata ai piedi della scala che conduce alla grotta del Salvatore. La presenza di eremiti è documentata fino all’inizio del XIX secolo.
All’inizio del ‘700 le rendite della cappella ammontavano a circa dodici ducati: tra i vari beni vi era un terreno in località le “Lenze” che fu venduto nel 1721 per un prezzo di duc. 4,5. Grazie a queste piccole rendite e alle offerte dei fedeli e del clero nel luglio 1783 venne ricostruito l’altare della cappella.
 
Estratto da V. Cardine – L. Cerino – N. D’Alessio, La Chiesa di S. Andrea Apostolo di Gauro. Itinerario storico nella fede di una comunità, Salerno marzo 2006, pp. 22 a 27.
A. D’Arminio – V. Cardine – L. Scarpiello, Chiese di Montecorvino e Gauro. Istituzioni religiose e vita sociale nella Diocesi di Acerno, Montecorvino Rovella febbraio 2018, pp. 122-123.
fonte: montecorvinostoria.it
 

 

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La foto: Piazza Budetta Notte, novembre 2024

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Piazza Budetta dall’alto, novembre 2024

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Cornea nel Medioevo

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Il toponimo Cornea è documentato nel 958 in una donazione fatta da Gisulfo I ad Amato, Vescovo di Salerno. Il termine come si evince dalla stipula indica solo il fiume e non l’abitato, che verrà denominato con tale nome, probabilmente, nel corso del XIV o XV secolo.
L’idronimo Cornea deriva dal latino Cornius “corniolo” da cui Cornea, albero del corniolo. Dizionario Italiano di De Mauro.
 
L’insediamento di Costa della Corte, sito al di sotto di un sentiero che collegava la Faragna con le Pezze, Arpignano e la Sala di S. Martino, fu fondato, probabilmente, nella seconda metà del VII secolo da un famigliare o un exercitales legato al Faraman, residente nel villaggio longobardo di Faragna-Piano Antico. Il luogo particolarmente accline e costeggiato da due valloni e nella parte bassa dal fiume Cornea, costituiva per la sua vicinanza alla strada Faragna-Isca-Molinati il principale luogo di difesa e controllo dell’intera area e punto ideale per la costruzione di un centro dominico.
Il sito dove erano poste le abitazioni in legno dell’exercitales e del suo seguito erano poste nella parte bassa del costone, vicino al fiume Cornea, in un luogo piano e particolarmente adatto a diverse coltivazioni: orti, olivi, vite, grano e corniolo. Grazie alle capacità dei suoi abitanti e alla fortuna economica di un piccolo proprietario locale fu fondata una chiesa dedicata a S. Eustachio. L’agiografia del Santo, protettore della caccia, e la vicinanza alla vasta zona boscosa del monte Foresta favorirono l’estensione del culto a buona parte degli abitanti dei villaggi vicini, consentendo l’ampliamento dell’edificio e la costituzione di un ricco beneficio ecclesiastico.
 
Nel corso del Medioevo si costituì una vasta proprietà boscosa, appartenente alla Mensa Vescovile di Acerno, chiamata nel corso del ‘500 la Foresta di Monsignore. Non sappiamo i modi e le forme di tale accumulazione fondiaria ma possiamo ipotizzare che a una donazione iniziale da parte di un dominus ci siano state diverse compere e acquisizioni nel corso del tempo da parte dei Vescovi di Acerno. Costituita da molteplici varietà di alberi, soprattutto querce, prati e sorgenti di acqua, veniva affidata in fitto a diversi appaltatori mediante asta pubblica ad “accensione di candela”. Alcuni pezzi di bosco, limitrofi ai coltivi e agli abitati di Cornea, Molinati e Ferrari, furono assegnati in concessione feudale da parte della Mensa Vescovile a vari personaggi vicini alla chiesa vescovile con l’obbligo di disboscarli e migliorali, impiantando la vite, l’olivo e altri alberi da frutto.
La parte bassa, ricca di valloni e sorgenti, fu frequentata da eremiti provenienti da diverse parti dell’Italia Meridionale.
 
Il toponimo di Santa Maria dell’Eterno è composto dall’agionimo Santa Maria e un oronimo ternum, che indica “vallone roccioso o monte”. Dalla visita pastorale di Mons. Glielmi del 1665, apprendiamo che Santa Maria dell’Eterno veniva detta anche Santa Maria delli Valloni”. Da ciò si può desumere che in origine il culto era localizzato in una capanna eremitica o in un anfratto del monte Foresta: la tradizione identifica tale luogo nella grotta sottostante l’attuale santuario.
Il vallone della Madonna dell’Eterno non è l’attuale sito dove la tradizione pone la grotta ma è quello che precede il piazzale e l’attuale santuario. Nei vari documenti seicenteschi, infatti, il vallone della Madonna dell’Eterno e la via pubblica che conduceva alla piccola chiesetta sono chiaramente identificati con il vallone che dall’attuale piazzale scende al piccolo bacino del mulino e confluisce poi nel fiume Cornea. Nel mese di agosto del 1697, “il Capitolo di S. Pietro possiede un territorio con alberi di querce, olive e terra vacua ed incolta, sita e posta nel luogo detto il Moro, proprio nel casale Cornea, giusto i beni degli eredi del fu Agostino D’Alessio, giusto l’oliveto del Rev. D. Pietro Paolo e Orazio Provenza, corso dell’arcatura, Beneficio di S. Antonio della famiglia Notargiacomo, giusto il vallone di Santa Maria dell’Eterno”.
 
Nel tardo medioevo la presenza costante di pastori e contadini nel sito portò in auge il culto della Madonna della Terna, tanto che l’icona fu spostata dalla capanna eremitica a una nuova sede più confacente al culto con la costruzione di una cappella. I lasciti e donazioni fatte dai fedeli favorirono la costituzione di un beneficio, gestito dal clero locale.
La piccola cappella, probabilmente, fu costruita tra fine del Quattrocento e i primi decenni del XVI secolo su iniziativa concorde del Vescovo, del clero e dei fedeli. La tradizione locale, alimentata dalla fede del popolo, riconduce la scelta del luogo dove fu costruita la cappella al miracolo della neve, tanto cara alla tradizione cattolica nella edificazione della prima basilica mariana a Roma di S. Maria Maggiore.
 
Il periodo normanno rappresentò per il villaggio longobardo di Costa della Corte l’inizio di un lungo e lento spopolamento fino al definitivo abbandono, avvenuto, probabilmente, nella seconda metà del XII secolo. Nella parte est del Cornea, oltre a Costa della Corte, vi era un mulino, costruito, con molta probabilità, nell’XI secolo da un consorzio di piccoli proprietari e, in seguito, acquisito per metà da Guglielmo I, Conte di Principato. Nel XII secolo il manufatto molitorio passò nelle mani dell’Arcivescovo di Salerno, il quale, grazie alle sue prerogative feudali, monopolizzò la molitura del grano e dei frumenti prodotti a Montecorvino, costringendo i suoi vassalli a servirsi solo del mulino di S. Eustachio.
Il nuovo signore feudale favorì la nascita di nuovi personaggi, legati e fedeli alla Chiesa di Salerno, assegnando loro concessioni e uffici feudali. Grazie a questa nuova élite la sponda ovest del Cornea fu interessata dalla gemmazione di nuove piccole entità umanizzate, abitate dalle famiglie Gallo, giudice Amato, Cesaro, Caroprese e Damolidei. Costituite da case a corte chiuse con porta sotto arco, si svilupparono lungo l’asse viario Molinati-Cornea-Isca durante il ‘300.
 
La presenza di una vasta proprietà boscosa, appartenente alla Mensa Vescovile di Acerno, consentì nel corso del XIV e XV secolo un aumento dell’allevamento di pecore, favorendo l’arrivo di pastori da vari abitati di Montecorvino e Acerno.
Durante il ‘400 assistiamo a un aumento socio economico e demografico della popolazione dei vari piccoli borghi, alla costruzione e ampliamento del costruito e alla presenza di diversi nuclei famigliari appartenenti ai Corrado, D’Alessio, Salicone, Scafilo, Guerra e Damolidei.
 
 
Per leggere l’Intero testo vedi su www.montecorvinostoria.it. alla voce borghi: S. Eustachio
 
 

Contrada Cornea
Cornea

Santuario Madonna dell’Eterno

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Votraci nel Medioevo

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Costa dei Votraci rappresentava il nucleo umanizzato più grande e popolato, abitato da gruppi di famiglie che avevano un forte senso di appartenenza, pronte a difendere le consuetudini e le tradizioni dei propri antenati. Per questi motivi, durante il ‘300, il nome Votraci si estese a tutti i vari nuclei circostanti, come si evince da un documento del 1437.
 
Il toponimo è indicato, fra il XV e XVI secolo, come Botracoru, Votracoru, Botracor e Votracor, ad esclusione di una visita pastorale del 1452, quando per errore dell’estensore dell’atto viene detto Votrangi. Il toponimo deriverebbe, con ogni probabilità, dal greco Bòtrys = “grappolo d’uva” o “uva” oppure Bòthros = “fossa”, “buca”, “cavità” e potrebbe indicare in zona la presenza di vigneti o di piccoli dirupi. A mio parere ritengo che sia più probabile il termine agrario anche se non si può escludere la seconda ipotesi per la presenza di piccoli crepacci lungo i due valloni di Piazza Grande e della Celza.
Il Quattrocento fu caratterizzato da ampie fasi di pace e maggior sicurezza e da un costante aumento demografico in tutta l’Università di Montecorvino. Il borgo posto lungo la strada proveniente da S. Lazzaro venne abbandonato con la costruzione di nuove abitazioni lungo la via principale. In generale l’intero assetto urbano modificò il vecchio impianto trecentesco, aprendosi e posizionandosi sempre più sui due assi principali: Votraci-Rovella e Votraci Molinati.
 
Il dissodamento dei terreni circostanti e l’impianto di olivi e altre colture aumentarono la produzione, favorendo la commercializzazione dei vari prodotti e un aumento del tenore di vita per tutti gli abitanti.
 
La scarna documentazione del XV secolo ci indica chiaramente che alcune famiglie avevano raggiunto una prosperità e un livello sociale tale da essere considerate a pieno titolo parte integrante dell’élite montecorvinese. Troviamo, infatti vassalli della chiesa, commercianti e fornitori della Chiesa di Salerno, presbiteri e amministratori dell’Università. Fra le famiglie emergenti vi sono i Di Feo, De Angerio, Ferraro, Frecina, Bracale, Corvino, Guglielmotta, De Orlando, De Beneditto e Provenza.
 
Per consultare l’intero testo vedi montecorvinostoria.it alla voce Borghi: Votraci